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Pubblicato il 21.06.2018

L'editoriale di ClicLavoro Veneto: il dibattito sulla qualità del lavoro

Il diritto alla formazione è l’arma più efficace nella lotta alla precarietà

Il dibattito sul mercato del lavoro, tanto in Italia quanto in Veneto, si è spostato oggi dal tema del recupero dei posti di lavoro persi durante la crisi a quello della qualità del lavoro creato e di una presunta maggiore precarietà. Già questo possiamo in realtà considerarlo un segnale positivo perché significa che un primo importante risultato è stato raggiunto.

Nel 2017 gli occupati in Italia hanno superato quota 23 milioni, attestandosi sugli stessi livelli del 2008, quando nel nostro Paese si è toccato il massimo storico dell’occupazione. Allo stesso modo il tasso di occupazione, seppure ancora tra i più bassi d’Europa, è arrivato lo scorso anno al 58%, su valori ormai vicini a quelli antecedenti la crisi. Merito soprattutto della ripresa avviata nel 2015: secondo i dati Inps, infatti, solo negli ultimi tre anni sono stati recuperati un milione e mezzo di posti di lavoro, di cui circa la metà a tempo indeterminato, e la crescita è proseguita anche nei primi mesi del 2018. Tra gennaio e marzo le posizioni a tempo indeterminato sono aumentate di circa 27 mila unità, quelle a termine, al netto della stagionalità, di 24 mila.

In Veneto la tendenza è analoga, con la differenza che già si partiva da risultati migliori. Il numero totale di occupati è sui livelli record di 2,1 milioni, per un tasso di occupazione che nei primi mesi del 2018 ha raggiunto il 66,4% (meglio si è fatto solo nel 2008). Rispetto al periodo pre-crisi i posti di lavoro dipendente sono 58 mila in più, di cui una buona parte a tempo indeterminato, e nel primo trimestre dell'anno in corso si è toccato in regione un picco di 53.200 posti di lavoro guadagnati, che rappresenta il miglior risultato dal 2009 a oggi per quanto riguarda i primi tre mesi dell'anno. 

È pur vero che rispetto a dieci anni fa il mercato del lavoro si presenta oggi più precario, a tempo parziale e a bassa retribuzione. Il totale delle ore lavorate è ancora lontano dai livelli pre-crisi e all’aumento dell’occupazione non ha fatto seguito un incremento significativo dei salari. Un fenomeno che ha più di una spiegazione. Innanzitutto, il legame tra occupazione e ciclo economico. È noto come nella fase iniziale di una ripresa economica le aziende preferiscano orientarsi su contratti a termine, nell’attesa di verificare se la crescita sia destinata a consolidarsi. In tali circostanze, la precarietà dei posti di lavoro si lega dunque anche alla precarietà del ciclo di vita delle imprese. L’occupazione migliora quando aumenta il clima di fiducia.

In secondo luogo, bisogna considerare che l’esplosione del part time è dovuta anche all’inarrestabile incremento dell’occupazione femminile, che ha raggiunto oggi il livello record del 49% (58% in Veneto). Gran parte della ripresa degli ultimi anni è legata proprio a una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in un Paese come l’Italia in cui storicamente le donne hanno sempre lavorato poco, almeno fino a qualche decennio fa. Se considerato uno strumento per fare entrare nel mondo del lavoro chi finora ne è rimasto stato escluso, quindi, risulta difficile considerare il part time come un elemento di precarizzazione. Il problema, semmai, è che ad aumentare in maniera considerevole è anche il part time involontario, ovvero il numero di lavoratori che vorrebbero lavorare di più ma che sono costretti ad accontentarsi di un contratto a tempo parziale o di un “lavoretto”.

E questo ci porta al terzo punto: part time e precarietà hanno favorito un’occupazione a bassa retribuzione. Basti pensare alle piattaforme digitali del food delivery e a quell’insieme di lavori occasionali, spesso mal pagati, che stanno creando un esercito di working poors e determinando un ampliamento della diseguaglianza e del disagio sociale. Un ecosistema in cui spesso i diritti dei lavoratori, dalla previdenza agli infortuni, dalle ferie alla malattia, vengono meno, pur nel rispetto della legge. E se per i giovani studenti in cerca di un’integrazione al reddito la flessibilità del lavoro on demand è una scelta consapevole, per molti lavoratori adulti rappresenta spesso una necessità dettata dalla mancanza di opportunità contrattuali migliori.

Ma la qualità dell’occupazione non dipende tanto dalla precarietà dei contratti. Nonostante la crescita degli ultimi anni, la percentuale di lavoratori a termine sul totale degli occupati in Italia rimane in linea con la media europea (15% a fronte del 14% dell’UE), simile a quella tedesca e inferiore a Paesi come Olanda, Francia e Spagna. Si tratta di un fenomeno che risponde alle esigenze di un nuovo mercato del lavoro, fluido e flessibile, ma che non per questo deve essere necessariamente associato a caratteri di marginalità e precariato. A meno che il lavoro a termine non sia utilizzato in modo opportunistico per nascondere posti di lavoro potenzialmente stabili. Una recente indagine dell’Osservatorio di Veneto Lavoro, realizzata su dati regionali, ha però dimostrato che pur essendoci alcuni casi di possibile “occultamento” di posti fissi, la maggior parte dei lavoratori impiegati con contratto a termine si riferisce a posti di lavoro effettivamente legati a esigenze temporanee. Il tema diventa allora quello del passaggio dal lavoro a termine alla stabilità: secondo un nostro studio, circa il 50% delle assunzioni a tempo indeterminato effettuate in Veneto è ascrivibile a imprese con le quali c’era già stato un precedente rapporto di lavoro precario e spesso riguarda la trasformazione di rapporti a tempo determinato o di apprendistato. Solo il 10% delle assunzioni interessa lavoratori che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro. In questa logica, il recente incremento del lavoro a termine può anche essere visto come un segnale incoraggiante per un corrispondente aumento dell’occupazione stabile nel medio periodo.

Il vero fattore di precarizzazione del mercato del lavoro è piuttosto ravvisabile in quella che viene definita la “polarizzazione asimmetrica dell’occupazione”. Significa che ad aumentare in questi anni è principalmente l’occupazione a elevata (dirigenti, professioni tecniche e intellettuali) e bassa qualifica (operai semi-qualificati, ristorazione, ospitalità), mentre le professioni a media qualifica, come impiegati e operai specializzati, si stanno riducendo. Le cause sono molteplici, dalla ridotta dimensione delle nostre imprese al taglio degli investimenti in ricerca e sviluppo fino alle conseguenze dell’automazione. Il risultato è che oggi avere un lavoro (precario, parziale, saltuario, di breve durata) non è più garanzia di un reddito familiare sufficiente. Non sorprendono allora i risultati della ricerca del Randstad Employer Brand, secondo cui stipendi bassi, work-life balance e scarse prospettive di carriera sono i principali motivi che spingono i lavoratori a cambiare posto di lavoro o, a parametri invertiti, a mantenere il proprio. Così come, analogamente, la partecipazione a percorsi formativi e l’aggiornamento professionale sono considerati fattori chiave per restare competitivi sul mercato del lavoro attuale.

Il punto è esattamente questo. In un contesto in cui trovare lavoro non è più un traguardo per la vita ma il punto di partenza di un percorso professionale di crescita, il tema cruciale diventa garantire a tutti il diritto all’esercizio della formazione e all’aggiornamento delle proprie competenze. Un diritto che non può essere delegato esclusivamente alla volontà e alla lungimiranza del singolo lavoratore, ma che deve essere messo al centro della contrattazione aziendale. È il caso, ad esempio, del recente accordo sul contratto dei metalmeccanici, dove la formazione professionale e la crescita delle competenze dei lavoratori hanno un ruolo primario. Occorre fornire alla persona gli strumenti necessari per renderla padrona del proprio destino, trovando un punto di incontro tra le proprie competenze e le esigenze del mondo delle imprese. Solo così si potrà garantire quella sicurezza nella transizione che rappresenta forse l’arma più efficace nella lotta alla precarietà.

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  • Fonte: Tiziano Barone - Direttore Veneto Lavoro

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