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Pubblicato il 21.06.2022

L’editoriale di ClicLavoro Veneto: cambiare lavoro fa bene al lavoro?

Tiziano Barone e Letizia Bertazzon, Direttore e analista di Veneto Lavoro, intervengono nel dibattito in corso sulle "grandi dimissioni" e riflettono sulle ragioni alla base della scelta di cambiare di lavoro


Molto è stato detto sulla repentina crescita delle dimissioni volontarie. Si è parlato di “grandi dimissioni” ricalcando la formula utilizzata per descrivere quanto stava succedendo nel contesto statunitense a ridosso della pandemia. Spesso si è parlato di “fuga dal lavoro”, enfatizzando la crescita in sé delle dimissioni ma decontestualizzando completamente il fenomeno, senza tener conto degli effettivi percorsi occupazionali. Si è fatto riferimento, sulla scia di una narrazione forse un po’ troppo sentimentale, ad un profondo cambio dell’assetto valoriale nella vita delle persone, ad una diffusa volontà di dare più spazio ai propri interessi e di (ri)appropriarsi del proprio tempo, percependo, in un certo senso, queste dimensioni logorate dalla sfera lavorativa ma senza considerare quanto l’approccio al lavoro sia cambiato da una generazione all’altra.

Anche il quadro delineato per il Veneto ha destato da subito molta attenzione e portato l’interesse su di un possibile allontanamento dal mondo del lavoro, soprattutto da parte dei più giovani, peraltro in un momento particolarmente delicato, con il sistema economico e produttivo locale impegnato nella ripartenza ancorché intriso di forte incertezza. Gli elevati livelli di incremento registrati per le dimissioni dal tempo indeterminato nei primi mesi del 2022 (+32% rispetto allo stesso periodo del 2021 e +35% rispetto al 2019) e documentati nel monitoraggio periodico effettuato dall’Osservatorio regionale sul mercato del lavoro hanno diffusamente catturato l’attenzione, alimentando così un rinnovato interesse ad alcuni dei problemi che da tempo interessano anche il mercato del lavoro locale.

Anche a livello nazionale sono emerse numerose analisi che in maniera sistematica e approfondita, sia grazie alle informazioni disponibili che con apposite ricerche sul campo, hanno proposto una rilettura del fenomeno aiutando a comprenderlo un po’ di più. Ma soprattutto offrendo la possibilità di portare l’attenzione alle implicazioni di quella che (se confermata) potrebbe diventare una caratteristica strutturale del mercato del lavoro del futuro.

Con la consapevolezza che oggi ci muoviamo in un contesto in veloce e profonda trasformazione anche dal punto di vista occupazionale, le analisi condotte hanno cercato di individuare tanto le caratteristiche di coloro che hanno scelto di lasciare il lavoro e i loro percorsi occupazionali, quanto le ragioni alla base della scelta intrapresa.

Le diverse riflessioni convergono, in modo piuttosto uniforme, nel definire alcuni tratti comuni. Innanzitutto è chiaro che quello di cui stiamo parlando si caratterizza per essere un fenomeno in forte espansione, coerente con le dinamiche occupazionali di un periodo contraddistinto da una congiuntura favorevole, ma non nuovo e già osservato anche in passato in corrispondenza della ritrovata dinamicità nel mercato del lavoro dopo situazioni di difficoltà. Come sottolinea la Fondazione Studi Consulenti del lavoro è evidente che la scelta di dimettersi è fortemente legata ad un’accresciuta mobilità nel mercato del lavoro e rispetto alla quale hanno beneficiato in particolar modo alcune categorie di lavoratori. Anche l’approfondimento condotto da Renato Brunetta e Michele Tiraboschi per Adapt University Press propone una lettura del fenomeno essenzialmente legata ad un generale rafforzamento delle transizioni occupazionali, rispetto al quale anche le dimissioni rappresentano un’opportunità di miglioramento per molti lavoratori, anche se non per tutti.

La scelta di lasciare il lavoro, ed in questo le analisi proposte concordano ampiamente, rappresenta più una volontà di cambiamento (per chi può) e non una vera e propria fuga dal lavoro. In altre parole, si lascia un’occupazione per intraprendere una nuova esperienza lavorativa, tant’è che in moltissimi casi il passaggio dall’una all’altra è pressoché immediato. Questo è ben sottolineato nelle note congiunturali periodiche redatte dal Ministero del Lavoro e Banca d’Italia. In Veneto, come evidenziato in un apposito focus nell’ultimo numero della Bussola di Veneto Lavoro, nel 44% dei casi chi lascia un posto di lavoro a tempo indeterminato trova una nuova collocazione entro i sette giorni successivi.

Ciò nonostante gli esiti occupazionali non sono uguali per tutti. I percorsi successivi alle dimissioni sono molto differenti a seconda della categoria di lavoratori, come evidenziato da Fondazione Studi e Consulenti del lavoro, con specificità legate al genere e all’età. Gli effetti risultano essere più o meno marcati in relazione agli spostamenti da un settore all’altro, senza tuttavia dare origine a dei veri e propri travasi di forza lavoro da un settore all’altro. Ricorrenza questa evidenziata anche in Veneto, dove le ricollocazioni a fronte di una dimissione avvengono spesso all’interno del medesimo ambito occupazionale.

Ad alimentare questa rinnovata mobilità dei lavoratori (che di fatto sembra accrescere una certa competizione tra aziende dello stesso settore) c’è soprattutto una forte necessità di cambiamento che in questo momento sembra aver trovato, per diverse ragioni, una condizione favorevole alla sua realizzazione. Interessante, a questo proposito, quanto evidenziato dall’Osservatorio HR Innovation Practice, School of Management del Politecnico di Milano, a proposito del fatto che oggi i lavoratori non sembrano più preoccupati della loro “futura” occupabilità, facendo intendere – come evidenziato anche da Andrea Garnero e Massimo Taddei in una riflessione proposta in lavoce.info parlando di correlazione positiva tra posti vacanti e dimissioni –  una maggior libertà di scelta rispetto al passato e quindi la percezione di trovarsi in un momento favorevole. Una percezione alimentata anche da un possibile “effetto emulazione”, che a sua volta ha contribuito a diradare ulteriormente possibili resistenze.

Ma quali sono le ragioni alla base della scelta? Sono molto diverse, ma accomunate dalla necessità o dal desiderio di migliorare, in senso lato, la propria condizione lavorativa. Anche se questo non va interpretato, necessariamente, nel bisogno di approdare ad un livello professionale superiore, come si è provato a dimostrare, anche quantitativamente, per il Veneto. Più in generale, come evidenziato dall’indagine dell’Osservatorio HR Innovation Practice, può essere ricondotto a una diffusa situazione di disagio e insoddisfazione che oggi sembra interessare diversi lavoratori e che in molti casi alimenta una forte necessità di cambiamento.

Sulla multidimensionalità dei fattori alla base della scelta e la difficoltà di generalizzare o categorizzare troppo rigidamente le varie esperienze si sono espresse diverse indagini, anche attraverso proposte di classificazione e misurazione come quella di Randstad Workmonitor, ma è chiaro come queste motivazioni vadano ricercate sia nell’ambito lavorativo (e riguardano tanto la dimensione organizzativa quanto quella relazionale e/o professionale) sia sul piano personale.

Anche internamente, tra colleghi di Veneto Lavoro, è capitato in diverse occasioni di interrogarci sulle ragioni alla base del fenomeno. Si è cercato di comprenderne le specificità e di collocare correttamente l’espansione recente rispetto alle dinamiche del passato. Per fare questo, oltre ad analizzare i dati a disposizione, si è cercato di avvicinarsi maggiormente alle esperienze dei lavoratori attraverso la raccolta delle loro storie. Quello che ne è emerso, e che in qualche modo va ad arricchire ulteriormente il quadro conoscitivo disponibile, ci consente di proporre una lettura trasversale di quanto sta succedendo, intercettando specifiche dinamiche settoriali, professionali e personali, e ipotizzando una classificazione in due grandi gruppi: da un lato si collocano i lavoratori “forti” (professionalmente, ma anche nella condizione socio-economica personale), dall’altro quelli più fragili (anche in questo caso sia per le caratteristiche dell’inserimento lavorativo sia nella condizione individuale). Mentre i primi “scelgono” di lasciare il lavoro spinti prevalentemente da motivazioni di carattere personale, interrompendo non di rado percorsi continuativi e duraturi, per i secondi la decisione di rassegnare le dimissioni, spesso all’interno di un percorso frammentato, asseconda spinte di carattere economico, talvolta pure di tipo contrattuale, nonché carenze, anche gravi, nelle condizioni di lavoro.

Tra i lavoratori “forti” c’è chi lascia il lavoro per accrescere la condizione professionale; si punta ad un miglioramento sia di carriera che economico o di arricchimento professionale, cogliendo le opportunità offerte da un mercato del lavoro in forte espansione. C’è chi è alla ricerca di un diverso equilibrio personale o professionale, anche a discapito (ma questo non ha importanza) della collocazione lavorativa. Addirittura, per alcuni di questi lavoratori, grazie proprio ad una condizione in grado di sostenere la scelta, la decisione di interrompere l’esperienza lavorativa avviene anche in assenza di alternative, anzi prevedendo volutamente un momentaneo allontanamento dal mercato del lavoro.

Per i lavoratori più fragili (con maggiore frequenza giovani, stranieri, donne) la scelta di lasciare il lavoro può essere invece ricondotta più spesso all’opportunità o alla necessità di migliorare una condizione lavorativa giudicata insoddisfacente, sia in termini di garanzie occupazionali che, più genericamente, nelle condizioni economiche e lavorative.

Questa marcata differenziazione nei comportamenti dei lavoratori, o meglio nelle motivazioni che determinano tali comportamenti, va ricondotta ancora una volta al permanere di una forte segmentazione nel mercato del lavoro, dove le esperienze lavorative tendono a polarizzarsi sempre più ai due estremi di un’ipotetica scala di misurazione della “qualità” del lavoro.

In modo trasversale, dunque, le ragioni alla base del recente aumento delle dimissioni vanno ricondotte all’enfatizzarsi di alcune debolezze che tradizionalmente caratterizzano il mercato del lavoro.

Adesso occorre però spostare l’attenzione alle implicazioni di un fenomeno che, come suggeriscono alcune recenti dinamiche, non è escluso possa durare nel tempo (o stabilizzarsi su di un livello superiore al passato). E se è pur vero che esso può contribuire (indirettamente) ad un innalzamento qualitativo degli standard lavorativi, come suggeriscono in molti, dall’altro rischia di accrescere ulteriormente la discontinuità dei percorsi professionali, con ricadute potenzialmente negative sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. A questo proposito è bene ricordare che, nel mercato del lavoro, non si può essere attrattivi e non si può essere oggetto di attrazione se non in presenza di garanzie minime sulle quali fondare un percorso di crescita ed investimento reciproco potenzialmente destinato a durare nel tempo.

 

Tiziano Barone, Direttore Veneto Lavoro

Letizia Bertazzon, analista mercato del lavoro Veneto Lavoro

 

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